
L.M.
Dopo le testimonianze di Martino Verri, del cronista anonimo e di Francesco Taegio, oggi si aggiunge alla narrazione un’altra voce, quella di Antonio Grumello, che ci offre un resoconto vivido e dettagliato della disfatta francese e del trionfo imperiale. La sua cronaca, densa di pathos e precisione militare, ci porta nel cuore dello scontro, dove la strategia, il coraggio e il fato si intrecciarono in un’unica, drammatica sinfonia di ferro e fuoco.
L’esercito cesareo, stremato, affamato e senza risorse, si trovava stretto nella morsa dell’assedio. Ma i suoi comandanti – il Viceré di Napoli, il Duca di Borbone e il Marchese di Pescara – non erano uomini da cedere alla disperazione. Fu così che nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, con un’audace manovra, decisero di abbattere le mura del Barco e gettare le loro forze nella mischia, scegliendo tra la gloria e l’annientamento.
La narrazione di Grumello ci mostra il frastuono della battaglia con occhi penetranti: i cesarei, con le camicie bianche addosso per riconoscersi nel caos dello scontro, avanzano nel cuore della notte. La muraglia crolla sotto i colpi dei loro attrezzi, e in tre punti le schiere imperiali si riversano nel Barco, conquistando il vantaggio della sorpresa.
Il Re di Francia, colto alla sprovvista, tenta di riorganizzare le sue forze. Dispone la sua artiglieria e invia le truppe a Mirabello, ma la sorte non è dalla sua parte. I suoi alleati svizzeri vacillano sotto la pioggia di fuoco cesarea, la cavalleria si scontra nel vasto campo aperto tra Mirabello e la città di Pavia, mentre il Marchese di Pescara, con la foga di un leone ferito, incita i suoi uomini con parole di ferro: vincere o morire!
E così, il destino si compie. La cavalleria imperiale travolge la vanguardia francese, le linee nemiche si sfaldano. I soldati del Re di Francia combattono con valore, ma il disordine si insinua nel loro schieramento. Francesco I, comprendendo il disastro imminente, cerca di fuggire verso Milano, ma le vie di uscita sono sbarrate. Si ritrova infine circondato in un lembo di terra umida e fangosa, presso la località Repentita, inseguito senza tregua dalle forze cesaree. Il suo cavallo cade trafitto e lui stesso, senza via di scampo, si arrende al soldato spagnolo Diego de Avila, che lo cattura con un gesto risoluto. In un attimo, il re cristianissimo non è più un sovrano, ma un prigioniero.
Mentre gli imperiali celebrano il trionfo, il Duca di Borbone si avvicina al re vinto, e con fredda ironia pronuncia le parole che sigillano il destino della Francia: “Sire, Vostra Maestà è stata la rovina mia, e io la rovina vostra.”
Così si chiuse la giornata del 24 febbraio 1525, una giornata che scosse l’Europa e ridisegnò le sorti dei regni. Grumello, con la sua prosa incisiva, ci consegna un racconto che è insieme testimonianza e monito. Ma altre voci ancora si leveranno a narrare quel giorno, perché la storia non è mai il racconto di un solo uomo, ma il coro di coloro che vissero e combatterono.

Antonio Grumello
Il Viceré di Napoli si trattenne per alcuni giorni in quel luogo. L’esercito imperiale si trovava in difficoltà: senza denaro, con poco pane, ancor meno vino e con l’intera Italia ostile. Per questo, il 23 e il 24 febbraio, il Viceré, il Bourbon e il valoroso Pescara decisero di entrare nel parco e stabilire i loro accampamenti a Mirabello, il palazzo situato al suo interno, oppure di ingaggiare battaglia con il re di Francia.
Fu quindi predisposta una scorta di travi ferrate con corde, per abbattere le mura del parco e permettere così l’ingresso dell’esercito imperiale nel cuore della notte. Così stabilirono i capitani e, dopo aver smobilitato l’accampamento, appiccarono il fuoco ai loro alloggiamenti. Ogni soldato imperiale aveva indosso una camicia.
Dopo aver disposto le sue truppe secondo l’ordinanza stabilita, l’esercito prese la via della muraglia del parco, nei pressi delle due porte di Mirabello, vicino al grande bosco che si trovava all’interno.
Una volta giunto presso la muraglia, l’esercito imperiale iniziò l’assalto: la fanteria, servendosi delle travi ferrate preparate in precedenza, riuscì ad abbattere la muraglia in tre punti, creando varchi sufficienti per l’ingresso ordinato delle truppe.
Nel primo varco, situato più in alto, verso Pavia, entrò la fanteria; nel secondo, al centro, si introdussero le forze di cavalleria pesante, che attesero accostate alla muraglia all’interno del parco, aspettando che l’intera fanteria e l’artiglieria fossero entrate. Quest’ultima, infine, penetrò nel parco attraverso il terzo varco, situato più in basso, di fronte al grande bosco e vicino alle due porte.
Dopo l’allarme, l’esercito francese si radunò sotto il comando del re, che dispose le sue truppe in assetto di battaglia, posizionando l’artiglieria e aprendo un fuoco feroce contro l’esercito imperiale.
Francesco I collocò l’avanguardia tra il palazzo di Mirabello e la muraglia abbattuta dagli imperiali, in una zona di campagna priva di fossati e alberi; lo schieramento principale fu disposto accanto al palazzo, mentre la retroguardia si posizionò vicino alla città di Pavia.
All’alba, tutto l’esercito imperiale era ormai all’interno del parco, ma si trovava sotto il pesante fuoco dell’artiglieria nemica. Mentre i francesi si schieravano in campo aperto, quattrocento lance della cavalleria gallica piombarono sull’artiglieria imperiale e riuscirono a catturarla.
A quel punto, il valoroso Pescara si rivolse alla fanteria spagnola con un discorso accorato, incitandoli a combattere con coraggio, promettendo loro la vittoria e grandi ricchezze. Ricordò loro che tutta l’Italia era loro nemica e che, se avessero perso la battaglia, sarebbero stati tutti massacrati.
La fanteria, animata dalle parole del comandante, giurò di combattere fino alla fine: vincere o morire.
Vedendo la loro cavalleria decimata dal fuoco dell’artiglieria francese, i cavalieri imperiali si rivolsero al Viceré, esclamando: “Non esitate, non esitate, non accada come a Ravenna, dove la nostra gente fu annientata dall’artiglieria! All’attacco, all’attacco! San Giacomo! San Giacomo!”
A quelle parole, abbassarono le visiere degli elmi, abbassarono le lance e si lanciarono con decisione contro l’avanguardia del re di Francia.
Lo scontro avvenne in campo aperto, privo di fossati e alberi. Mentre le avanguardie imperiali e francesi si affrontavano con furia, la cavalleria leggera imperiale si diresse verso la città di Pavia, ingaggiando un violento combattimento con i soldati francesi.
Dal castello, e in particolare dalla torre, dove Antonio de Leyva aveva posizionato il suo presidio, si aprì un fuoco pesante contro la fanteria svizzera, che si trovava schierata nei pressi di una torricella, in campo aperto. I colpi furono così devastanti che gli Svizzeri iniziarono a cedere, disperdendosi in disordine con le picche abbassate, come se fossero già stati sconfitti.
La notizia della fuga degli Svizzeri giunse presto a Francesco I. Il re abbandonò la battaglia in cui si trovava impegnato e si precipitò verso di loro, cercando di riorganizzarli. Tuttavia, il caos era tale che riuscì solo con grande difficoltà a radunarli.
Nel primo violento scontro tra l’avanguardia imperiale e quella francese, gli imperiali inizialmente arretrarono, ma il grosso del loro esercito avanzò compatto, ingaggiando una battaglia feroce con i francesi.
A quel punto, anche i militi francesi iniziarono a cedere terreno. Ben presto, tra le loro file si diffuse la voce che gli Svizzeri erano in rotta: presi dal panico, i soldati francesi dell’avanguardia cominciarono a voltare le spalle e a fuggire in direzione del palazzo di Mirabello.
Quando Francesco I tornò nella mischia, si rese conto che la sua avanguardia si stava ormai ritirando in disordine, gli Svizzeri fuggivano e persino Monsignore de Lannoy si stava dirigendo verso il ponte per mettersi in salvo.
Disperato per il caos che travolgeva il suo esercito, Francesco I cercò di ripiegare con le sue truppe verso la muraglia del parco, sperando di uscire e prendere la strada per Milano. Ma ogni varco era ormai chiuso, e non vi era alcuna via di fuga.
Il re di Francia, ormai in fuga, si rifugiò in un luogo chiamato Repentita, vicino al bosco degli Onidi, tra rogge e paludi. Ma l’esercito imperiale, lanciato all’inseguimento, non gli lasciò scampo. In particolare, Diego de Ávila, uomo d’arme al servizio del Viceré di Napoli, non distolse mai lo sguardo dal re, deciso a farlo prigioniero.
Quando Diego raggiunse Francesco I in un piccolo prato, circondato da rogge e acquitrini, si trovò di fronte al sovrano, che era scortato da due suoi militi. Senza esitazione, sferrò alcuni colpi con il suo stocco al cavallo del re, e l’ultimo colpo lo raggiunse alla spalla. Lasciando la lama conficcata nell’animale, afferrò la briglia del destriero di Francesco. A quel punto, il sovrano francese, comprendendo che non vi era più scampo, consegnò a Diego il suo stocco e il guanto di ferro, dichiarandosi suo prigioniero.
Subito dopo, il cavallo del re crollò a terra morto, e in un attimo Francesco I fu travolto dalla furia di cavalieri e soldati appiedati. Chi gli strappava il farsetto, chi gli sottraeva la collana dal collo: mai si era visto tanto clamore! Il re continuava a gridare: “Io sono il re!”, ma nessuno sembrava ascoltarlo.
Fu allora che sopraggiunse La Motte, uomo d’arme del duca di Borbone, il quale, vedendo il sovrano in quello stato, gridò: “Non lo toccate! È il re!” Poco dopo, arrivò anche il Viceré di Napoli, che allontanò la calca, aiutando il re a togliersi l’elmo e facendolo montare sul proprio cavallo.
Mentre Francesco I si preparava a salire in sella, giunse il duca di Borbone. Scese immediatamente dal suo cavallo e, baciandogli la mano, gli disse con amarezza: “Sire, Vostra Maestà è stata la mia rovina, la sua rovina e quella di tutta la Francia.”
Francesco I fu quindi condotto prigioniero al monastero di San Paolo, segnando la più gloriosa vittoria che un esercito avesse mai ottenuto.
Il re di Francia era stato catturato. La maggior parte dei suoi capitani e baroni erano stati uccisi o fatti prigionieri. Circa quindicimila uomini erano morti o annegati nel fiume Ticino. L’intero esercito francese era stato annientato. Un evento straordinario!
Nota dei Capitani Morti e Catturati nella Battaglia di Pavia
Capitani Caduti in Battaglia
Monsignor l’Ammiraglio
Monsignor de La Palice
Monsignor de La Trémoille
Monsignor de Lescun
Monsignor Grandschaudere
Il Duca di Saint-Fort
Il Bastardo di Savoia
Monsignor di Lorena
Monsignor de Bois
Monsignor de Longueville
Il Figlio dell’Ammiraglio
Monsignor de Tonnerre
Il Governatore di Limoges
Monsignor di Parigi
Monsignor di Durazzo
Il Barone di Bussières
Capitani Fatti Prigionieri
Il Re di Navarra
Monsignor d’Aubigny
Monsignor di San Polo
Morancy
Monsignor de Brion
Il Balì di Parigi
Il Signor Federico da Bozzolo
Il Signor Visconte
Il Conte de La Tenda
Il Gran Maresciallo
Il Primo Consigliere del Re
Il Figlio di Uberto della Marcia
Il Colonnello degli Svizzeri
Monsignor de Jamont
Monsignor de Montguyon
Monsignor de La Châtaigneraie
Il Conte Pietro Belgioioso
Dopo che Francesco I, re di Francia, fu condotto prigioniero al monastero di San Paolo, i capitani imperiali si riunirono in consiglio per decidere dove fosse più sicuro tenerlo, affinché non potesse tentare la fuga, almeno fino all’arrivo di ordini diretti dall’imperatore Carlo V.
Il marchese di Pescara espresse la sua opinione, sostenendo che il luogo più adatto per custodire il re fosse il castello di Pizzighettone, poiché nessun altro luogo avrebbe garantito una sicurezza maggiore. Il castello, infatti, era fortificato da possenti mura e sorgeva in una posizione strategica, dotato inoltre di una rocca imponente con stanze adatte a ospitare il prigioniero di così alto rango.
Dopo aver ascoltato la proposta del Pescara, i capitani imperiali approvarono il suo consiglio e decisero immediatamente di mettere in atto il trasferimento. L’incarico della custodia del re fu affidato al Viceré di Napoli, con l’ordine di condurre la missione con duemila fanti spagnoli e duecento lance di cavalleria.
Ricevute le disposizioni e predisposti tutti i preparativi necessari per garantire la sicurezza del prigioniero, il Viceré di Napoli radunò le sue truppe, mise in ordine le colonne di marcia e partì alla volta di Belgioioso, dove stabilì il suo primo accampamento.
Cronaca di Antonio Grumello Pavese dal MCCCCLXVII al MDXXIX sul testo a penna esistente nella Biblioteca del signor Principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, Pubblicata per la prima volta da Giuseppe Müller - Milano, Francesco Colombo Libraio Editore, 1856
testo storico elaborato da chatGPT per una migliore comprensione.

Antonio Grumello
Stato el Viceré di Napoli per alquanti giorni in epso locho, redutto lo Cexareo exercito senza danari, pocho pane, mancho vino et inimicho tutta Ittallia, fu deliberato fra il Viceré, el Barbono et il Pischara uallente, adi 23 de Febraro et adi 24 del predicto mense, de intrare nel barcho et ponere soi allogiamenti a Mirabello, pallazo in epso barcho, ouero apichare battaglia con il re Gallicho.
Facta la prouixione de trauelli ferrati con corde da gittare a terra la muraglia dil barcho et per epso locho intrare con lo exercito Cexareo a megia nocte, cossi fu stabilito per epsi capittanei, et leuato lexercito Cexareo depso locho et datto il focho a soi allogiamenti, hauendo ogni millite Cexareo una camixa in dosso.
Posta sua ordinanza, pigliarno il camino di la muraglia dil barcho, apresso ale do porte a Mira, al boscho grosso chi he in epso barcho.
Acostato lo exercito ala muraglia, tirando la infantaria in epsa muraglia con predicti trauelli, hebeno gittato a terra la muraglia in tre lochi che intrare poteua lo exercito Cexareo in ordinanza.
Nel primo locho, di sopra da la banda da Pauia, intrò la infantaria; in quello di megio le gente d’arme, quale tutte poi herano acostate ala muraglia depso barcho, espectando fosse intrato tutta la fantaria et artellaria; et epsa artellaria fu intrata nel barcho ne la terza rotta, di sotto da la banda de le do porte, a rimpetto dil boscho grosso.
Datta alarma lo exercito Gallicho, il re unite suo exercito, ponendo sua ordinanza con sua artellaria, tirando in lo exercito Cexareo crudelissimamente.
Poxe el re Gallicho la vanguardia fra Mirabello pallazo et la muraglia rotta per lo exercito Cexareo, in la campagna nuda de fossi et arbori; et la battaglia poxe apresso a Mirabello pallacio; et el retroguardo poxe acosto ala città Papiense.
Essendo tutto lo exercito Cexareo redutto nel barcho in lalba ciara, et uedendo essere abattuto da l’artellaria, et uedendo lo inimicho exercito ala campagna, per apichare battaglia lanze quatrocento Gallice detteno in l’artellaria Cexarea et pigliarno essa artellaria.
Il che facto, el Pischara uallente fece suo exordio ala infantaria Spagnola, exhortandoli a combattere uirilmente, che li donaua la uictoria et tutti li faceua richi, ricordandoli como haueano inimicha tutta Ittallia, che se perdeueno la battaglia tutti seriano occixi.
Et cossi epsa infantaria dette la fede al Pischara di combattere; o uincere o morire.
Le gente d’arme, vedendo essere abbattute da l’artellaria Gallicha, disseno al Viceré: “Non ve, non ve, non ciada, como fece a Ravenna che tutta nostra gente fu dissipata da l’artellaria; dentro, dentro, Sancto Iacobo, Sancto Iacobo!”
Ad una voce, abassate le visiere, poste sue lanze in resta, pigliarno il camino di la vanguardia dil re Gallicho.
Facto lo incontro in la campagna nuda de fossi et legnami, combattendo luna et l’altra vanguardia, et li caualli legieri Cexarei currendo al camino di la città Papiense, combattendo con li milliti Gallici animosamente.
Dal castello, cioè dal torrono, dove hera il cauallero facto per Antonio da Lieua, era tirato in la infantaria de Eluecij, quali herano in ordinanza apresso ala torretta in su la campagna nuda, di sorte che herano abbattuti epsi Eluecij, che se foreno aslargati cominciando andare chi in qua, chi in là con le piche basse, como se fosseno stati rotti.
Fu andato la nova al re Gallicho che li Eluecij fugivano, per il che, levato il re di la battaglia, nella qual hera sua persona, fu andato da epsi Eluecij et, ritrovato il disordine grande, fece assai ad unirli insiema.
Al primo incontro facto fra la vanguardia di Cexare et quella dil re Gallicho, quella di Cexare fece rinchulo et la battaglia di Cexare inanti.
Apichata la battaglia con li milliti Gallici, epsi milliti Gallici feceno rinchulo.
Venne una voce in la vanguardia dil re Gallicho che li Eluecij erano in rotta, donde cominciarno a voltare le spalle et fugire al camino del pallazo de Mirabello.
Ritornando poi il re Gallicho al locho suo, cioè in la battaglia, hebbe ritrovato la vanguardia sua rotta a fugire, et li Eluecij a fugire, et monsignore de Lanson a fugire al camino dil ponte.
Et el povero re Gallicho, vedendo il disordine dil suo exercito, unito con la battaglia sua, piglio il camino di la muraglia dil barcho per ussire fora et pigliare il camino di la città Mediolanense, ma non poteva ussire per essere stopata tutta epsa muraglia, non essendo locho alcuno di potere ussire.
Redutto epso re Gallicho nel locho di la stancia chiamata Repentita, apresso al boscho de li Onizi, in le rogie et paduli, sequitando lo exercito Cexareo la vittoria, et maxime Diegho de Mauilla, homo d’arme dil Viceré di Napoli, stando sempre intento a seguire lo re Gallicho per fare esso re prigione.
Gionto Diegho al re Gallicho in uno certo praticello in megio di rogie et paduli, affrontato el Gallicho re, qual hera in megio de doi soi milliti, datte alquante ferite con suo stocho al cauallo dil re Gallicho, et l’ultima dette in la spalla di epso cauallo. Lassando il stocho in la spalla, dette di mane alla briglia dil cauallo del Gallicho re, et epso re Gallicho dette suo stocho et suo guanto di ferro a Diegho et se fece suo prigione.
Et il cauallo dil re Gallicho caschò morto, et subito la furia de caualli et pedoni fu adosso al povero re Gallicho, chi li strazava il saglione, chi li pigliava la collanna dal collo. Mai se vide tanto rumore, et il re Gallicho diceva: “Io ge sono lo roi”, ma non li valeva il suo dire.
Sopragionse poi Lamotta, millite dil Barbono, cridando: “Non fati che he lo roi”, et poi sopragionse el Viceré di Napoli, quale li hebe leuato la furia da dosso, adiutandolo epso Viceré a levare l’elmo ad epso re Gallicho, ponendolo a cauallo sopra il suo cauallo.
Et avanti che montasse a cauallo, sopragionse il Ducha di Barbono, et dismontato da cauallo, baxandoli le mane, disse queste parole: “Sire, Vostra Maestà si he stata la ruina mia, et di Vostra Maestà, et di tutta la Franza”.
Et poi fu condutto nel monasterio di Sancto Paullo, con la più felice vittoria che hauesse mai exercito al mondo.
Prexo il re Gallicho, prexo et morto la più parte de li soi capittanei et baroni, morte de le persone et neghate nel Tecino fiume circa a quindeci millia, tutto suo exercito dissipato. Cossa admiranda!
Nota de li Capittanei Morti e Prexi nella Battaglia di Pavia
Capitani Morti
Monsig. l’Armiraglio
Monsig. di la Pallixa
Monsig. di la Tremollia
Monsig. di Leschu
Monsig. Granschudere
Il Ducha di Sinfort
Il Bastardo di Sauoia
Monsig. di Lorena
Monsig. di Boixi
Monsig. di Longhauilla
Il Filiolo dil Armiraglio
Monsig. di Tonar
Il Gubernatore di Limonsi
Monsig. di Paris
Monsig. di Durazo
Il Barono di Busaciens
Capitani Presi
Il Re di Nauara
Monsig. di Ubignino
Monsig. di S. Pollo
Moransi
Monsig. di Briono
Il Bali de Parixe
Il Sig. Federicho da Bozulo
Il Sig. Vesconte
Il Conte di la Tenda
Il Gran Mareschalcho
Il Primo Consigliero dil Re
Il Figliolo di Uberto da la Margia
Il Collonello de Eluecij
Monsig. di Giamonto
Monsig. di Montegran
Monsig. di la Chilieta
Il Conte Petro Belgioioxo
Condutto Francischo, re Gallicho, nel monasterio di Sancto Paullo, feceno li capittanei Cexarei suo consulto, doue se hauesse a ponere epso re Gallicho, che hauesse ad stare sicuro di la fugha, usque quo si hauesseno littere da Cexare.
El marchexe Pischara disse suo parere che meglio hera condurre epso re Gallicho nel castello de Pizleone, che in niuno altro locho, doue hauesse ad stare più sicuro, per essere esso castello fortissimo di muraglia et sito, et hauere una fortissima roccha con stancie acommode per epso re Gallicho.
Alditto li capittanei Cexarei, el consulto dil Pischara fu aprobato da epsi, et subito detteno expeditione al signore Archono, el uicere di Napoli, che esso pigliasse l’assumpto di la custodia dil re Gallicho con infanti doi millia Spagnoli et lanze ducento.
Hautto il signore Archono l’expeditione di tutto il bixogno per la custodia depso re Gallicho, uniti et montati li caualli, posta sua ordinanza, pigliò il camino di Belgioioxo et iui fece soi allogiamenti.
Cronaca di Antonio Grumello Pavese dal MCCCCLXVII al MDXXIX sul testo a penna esistente nella Biblioteca del signor Principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, Pubblicata per la prima volta da Giuseppe Müller - Milano, Francesco Colombo Libraio Editore, 1856