
L.M.
Dopo le voci di Martino Verri e del cronista anonimo, oggi apriamo un altro scrigno di memorie, e questa volta a parlare è Francesco Taegio, che con raffinata eloquenza ci tramanda il fragore di quel giorno fatale. La sua cronaca, vibrante e solenne, ci conduce nel cuore della tempesta, laddove il destino di re e imperi fu deciso tra polvere da sparo e clangore d’acciaio.
La notte si fece complice del disegno imperiale. Passata la mezzanotte, abbandonati gli accampamenti, il glorioso esercito di Carlo V avanzò verso Pavia. Il muro del Barco, quel baluardo che da giorni separava gli imperiali dai francesi, fu abbattuto in tre punti con incredibile rapidità. L’inganno era compiuto, e il varco aperto nel cuore dell’accampamento nemico divenne la soglia della disfatta francese.
Francesco I, resosi conto dell’irruzione, mosse le sue artiglierie verso Mirabello e dispose le sue truppe in quattro grandi schieramenti. Ma le sue forze, pur animate da audacia, si trovarono a fronteggiare un nemico deciso e astuto. Le cannonate squarciarono la notte, mietendo vittime tra gli imperiali e causando un momentaneo scompiglio nelle loro file. Ma il Marchese di Pescara, con ingegno e impeto, si erse a guida della riscossa. Con parole di fuoco incitò i suoi uomini alla battaglia, ricordando loro che quel giorno sarebbe stato il giorno della gloria o della rovina.
E così fu. L’assalto si abbatté sui francesi con la furia di un uragano. Gli Svizzeri e i Lanzichenecchi dalla banda nera si difesero con fiera determinazione, ma il fuoco degli archibugieri imperiali li decimò, spezzando le loro linee. Il Marchese del Vasto, mosso da furore indomito, piombò sui nemici come un lupo tra le pecore, abbattendo chiunque gli si parasse innanzi. Alla vista della carneficina, gli Svizzeri cedettero e volsero in fuga, lasciando gli alleati italiani e lanzichenecchi del re di Francia in balia della tempesta.
Intanto, la cavalleria francese si scontrava con le forze imperiali in un duello disperato. Inferiori di numero, ma non di valore, gli uomini d’arme di Carlo V resistettero con inflessibile determinazione. Fu allora che, come un presagio funesto, gli archibugieri imperiali si schierarono al centro dello scontro e, con precisione letale, seminarono il caos tra i cavalieri francesi. L’ardire del Viceré e del Duca di Borbone si fece avanti tra il fragore della battaglia, e con la loro spada portarono il nemico a piegarsi sotto la furia imperiale.
E Francesco I? Il re cristianissimo, circondato dai suoi nobili e immerso nel vortice del combattimento, mostrò prodigi di valore. Abbatté di sua mano il banderato del conte Salmo, spezzando la resistenza della prima compagnia tedesca. Ma il fato, inesorabile, aveva già tracciato la sua sorte. Ferito e privato del suo destriero, il sovrano si ritrovò accerchiato. Rifiutò di arrendersi ai suoi assalitori, resistette fino all’ultimo, ma il destino non concede misericordia. Fu il Viceré di Napoli a ricevere la sua resa, con quella riverenza che si tributa a un re, sebbene vinto.
Con la cattura del re, la battaglia ebbe il suo epilogo. Il sole, che fino a quel momento era rimasto celato dalle nebbie della guerra, si levò improvvisamente, quasi a suggellare con la sua luce la vittoria imperiale. I prigionieri furono molti, tra cui il re di Navarra, il Gran Bastardo di Savoia, nobili e condottieri di gran nome. I fuggitivi, inseguiti, caddero lungo il cammino o si gettarono nelle acque gelide del Ticino, dove trovarono la morte anziché la salvezza.
Così si chiuse la giornata del 24 febbraio 1525, un giorno che mutò il volto d’Europa. Taegio, con la sua prosa fiammeggiante, ci consegna un racconto che è insieme epopea e monito, memoria e destino. Ma altre voci ancora si leveranno a narrare quel giorno, perché la storia non è mai il racconto di un solo testimone, ma il coro di coloro che vissero e raccontarono.

Francesco Taegio
La notte seguente il felicissimo esercito imperiale, passata la mezza notte, abbandonati i suoi alberghi, cominciò a inviarsi verso Pavia. Giunto al muro del Barco, con certi travi subitamente in tre luoghi rovinò il muro e dentro v’entrò.
Il Re di Francia, inteso ciò, comandò che l’artiglieria fosse condotta verso Mirabello, credendo che gli imperiali si dirigessero in quella direzione. Ordinò inoltre che gli Svizzeri, insieme a Monsignore d’Obegnino, Messer Anibale Guasco Alessandrino e Francesco, Monsignore di San Polo, si mettessero in cammino.
Quindi dispose le squadre degli uomini d’arme e dei cavalli leggeri, tra i quali vi erano i lanzichenecchi della Banda Nera, i Provenzali e alcuni Italiani, tutti stretti in un battaglione. Così l’esercito francese fu diviso in quattro parti.
Appena si accorsero che l’esercito nemico, preceduto dall’artiglieria e dalla compagnia degli Italiani, avanzava animosamente contro di loro, subito fecero partire molte bocche da fuoco.
A causa di questo, non solo molti soldati imperiali rimasero uccisi, ma anche l’ordinanza del loro esercito fu alquanto disturbata. Alcune compagnie furono persino costrette a ritirarsi per un breve tratto.
E benché il Signor Antonio de Leva, per il fumo grandissimo che riempiva l’aria, non potesse vedere ciò
che i due eserciti stavano facendo, nondimeno, egli, udendo il fragore e il furore dell’artiglieria, con alcune bocche da fuoco e tutti i suoi soldati, subito saltò fuori da Pavia, tutto allegro e gioioso. Costringendo alla fuga i fanti e i cavalli leggeri contro i quali aveva dato il primo assalto, avanzava francamente per incontrare il resto dei nemici.
A quell’ora la battaglia era già iniziata nel modo più cruento. L’avanguardia francese, comandata da Monsignore dello Scu, Monsignore di Brion e il valoroso Signor Federico di Bozolo, aveva conquistato l’artiglieria del campo imperiale.
Perciò, essendo i soldati imperiali molto danneggiati dalle cannonate francesi, furono costretti a ritirarsi, e sembrava che la fortuna in quel primo momento fosse molto favorevole ai Francesi.
Ma il Signor Marchese di Pescara, più che mai ricco d’ingegno, ardire e franchezza, mandò subito un messo al Viceré e al Duca di Borbone, dicendo loro che era giunto il tempo della battaglia, e che quello era il giorno in cui, mostrando il loro valore, la vittoria doveva essere loro e la sconfitta dei nemici.
Poi, rivolgendosi ai suoi soldati, disse:
‘Fratelli, ora è il momento di far conoscere al mondo quanto siete valorosi! Se combatterete secondo la vostra consueta audacia, presto vedrete i nostri nemici rovinati. Andiamo, dunque, e assaliamo con fortuna quelli che Dio, senza dubbio, renderà preda della nostra impresa. Combattendo con virilità, otterremo la vittoria a ogni costo e, con essa, grandi ricchezze.
Dunque, conquistiamo ciò che ci spetta!’
Con molte altre parole simili, egli infiammò i suoi soldati. Poi, per incitarli ancor più al combattimento, non curandosi né di frecce, né di lance, né delle palle d’artiglieria, ma solamente dell’onore infiammato, entrò tra i nemici, non altrimenti che un leone famelico che si avventa su un branco di giovani tori, prima squarciandone uno, poi lacerandone un altro, sfogando la sua ira con le unghie e la ferocia della sua fame. Così il nobile Marchese, con la spada in mano, menava fendenti di qua e di là, facendo strage tra i Francesi.
Egli, con le parole, ma ancor più con quei meravigliosi atti, accese talmente il fuoco della battaglia tra i suoi fanti che questi, con archibugi, archibugiate e aste ferrate, si rivoltarono contro gli Svizzeri e i lanzichenecchi della Banda Nera. Sebbene all’inizio gli Svizzeri combattessero con forza, il Marchese, spinto da un ardente desiderio di gloria, seguito dai suoi più fidati compagni, si gettò su di loro con tale furore che sembrava non avesse alcun nemico davanti.
Con un solo colpo di spada li disperse e, colpendo prima uno, poi un altro, li abbatteva come pecore. Vedendo ciò, gli Svizzeri volsero le spalle e cominciarono a fuggire, abbandonando i lanzichenecchi e gli Italiani al soldo del Re di Francia, lasciandoli in balia di colpi spietati e crudeli.
Nel frattempo, gli uomini d’arme francesi si scontrarono con gli uomini d’arme imperiali. E benché questi ultimi fossero in minor numero rispetto ai nemici, non si sgomentarono affatto, ma resistettero fermamente al primo impeto e furore francese. Già l’una e l’altra parte combatteva con virilità, quando cinquecento archibugieri, saggiamente disposti tra gli uomini d’arme imperiali, cominciarono a far fuoco con i loro archibugi.
Molti Francesi, colpiti, cadevano a terra, travolti dai loro stessi cavalli. Non per questo il Viceré e il Duca di Borbone cessavano di combattere con coraggio contro altri nobili baroni.
In tutto questo, il Cristianissimo Re, circondato dai suoi gentiluomini, dimostrava grandissime prodezze contro gli imperiali.
Ed egli fu quello che uccise il portabandiera del Conte di Salm, capitano di una compagnia di Tedeschi mandata al soccorso di Pavia dall’eccellentissimo Arciduca d’Austria, Ferdinando. Questa compagnia fu la prima a scontrarsi con i Francesi.
E benché il signore Marchese di Pescara si sentisse già ferito al volto, al ventre e a una gamba, nondimeno, tenendo in poco conto quelle ferite, e vedendo che molti dei suoi si erano smarriti per i grandi atti di valore compiuti dal Cristianissimo Re, sempre più acceso di ardire, confortava i suoi e continuamente riforniva di nuova gente quei luoghi dove maggiore era il bisogno.
Dall’altro lato, il Duca di Borbone si rivolse alle compagnie tedesche, il cui capitano era il signore Giorgio Frundsberg, consigliere dell’Imperatore, e a quelle dei fortissimi Borgognoni, dicendo loro:
‘Non crediate, fratelli carissimi, che vi abbia condotti a un’impresa così grande senza prima aver conosciuto il vostro ardire e il vostro valore. Non ho alcun dubbio che voi possiate temere questa piccola furia di costoro, i quali combattono più per denaro e per paura di peggio che per vero desiderio di onore o per amore del loro Re.
Io sono certo che, se non confidassero nella loro moltitudine, che è l’unico vantaggio che ci superano, si sarebbero già dati alla fuga. Ma questo non vi deve scoraggiare, perché voi siete loro superiori in ingegno e in ardire.
Perciò spero fermamente che oggi la gloria, l’onore e il vantaggio saranno nostri.’
Detto ciò, fu lui il primo a correre di nuovo con la lancia contro i nemici.
Dopo circa un’ora di combattimento, i Francesi cominciarono a fuggire qua e là. Molti di loro erano feriti, molti fatti prigionieri, e così la vittoria fu degli Imperiali.
Di questi ultimi, solamente il Marchese di Città Sant’Angelo, capitano di uomini d’arme, e circa ottocento altri soldati rimasero uccisi.
Ma nella fazione francese, quasi tutti gli Italiani, i lanzichenecchi della Banda Nera e millecinquecento Svizzeri furono massacrati, e tutti gli altri si arresero agli Imperiali, eccetto cinquecento, che cercando di fuggire nel Ticino, vi annegarono.
In questo conflitto rimasero uccisi, tra una parte e l’altra, circa settemila uomini, i cui corpi si vedevano per due miglia fuori dalla terra, senza vita, riversi sul campo di battaglia.
Tra questi vi furono l’armigero del Re e un suo figliolo, Monsignore della Pelliza, Monsignore della Tremoglia, Monsignore di Buff, Monsignore di Chiamon, Monsignore di Bubanfi e il Signore Galeazzo Sanseverino.
I loro corpi, la mattina seguente, furono portati nella chiesa di San Paolo, dove vennero eviscerati e trattati con aloe e altri oli affinché potessero essere meglio conservati dalla putrefazione e quindi trasportati con minore deterioramento in Francia.
Il Signore Galeazzo Sanseverino fu portato alla Certosa dalla sua famiglia, che tutta per il dolore piangeva.
E benché il Cristianissimo Re in questo fatto d’armi avesse compiuto molte azioni straordinarie, alla fine, venendogli meno il destriero, già gravemente ferito, cadde a terra e, calpestato, si vide immediatamente circondato da tre Baroni del Vice Re di Napoli.
Non volendo in alcun modo arrendersi, fu raggiunto dallo stesso Vice Re, che aveva la spada sguainata in mano, e da lui con ogni riverenza nuovamente esortato a cedere.
Vedendo che invano avrebbe potuto sperare aiuto, infine si piegò alla volontà del destino.
E così il Cristianissimo Re fu fatto prigioniero e, chiedendo egli come grazia speciale di non essere condotto al Castello di Pavia, fu onorevolmente accompagnato nel Convento di San Paolo, dove già soleva alloggiare prima che l’esercito dell’Imperatore si presentasse alla battaglia.
Fatto adunque prigione il Re di Francia, subito furono presi anche il Re di Navarra, il Gran Bastardo di Savoia, il Legato del Pontefice, Monsignore Mamorant, Monsignore di Florenge, Monsignore dello Scu, Monsignore di Bonavalle, Monsignore di San Polo, il Signor Galeazzo Visconte, il valoroso Signor Federico di Bozulo, il Principe di Lorena, Monsignore di Brion, Monsignore d’Obegnino, il fratello del Marchese di Saluzzo e molti altri nobilissimi baroni.
E cosa meravigliosa parve allora a tutti, poiché, essendo nell’aria una fittissima nebbia, non appena fu fatto prigioniero il Cristianissimo Re, il Sole improvvisamente sparse i suoi fiammeggianti raggi da ogni parte.
Perciò dicevano gli Imperiali: ecco che il cielo si rallegra con noi per tale vittoria.
Ma Monsignore di Lanson, vedendo che gli Svizzeri fuggivano e che tanti altri Francesi erano o morti o fatti prigionieri, con quattrocento lance cominciò a marciare verso la Francia e così si salvò.
E benché i Francesi, sconfitti e disfatti, fuggissero, nondimeno il Signor Antonio de Leva e il Conte di Lodrone, con le loro compagnie, li inseguirono per un lungo tratto e, dopo aver catturato molti nobilissimi prigionieri, tornaron vittoriosi a Pavia, carichi di ricchissime spoglie.
Così, in quello stesso giorno, la città restò finalmente libera dalla crudele ossidione, per cui tanto essa quanto tutta la Lombardia sono tenute a rendere lodi a Colui che solo è degno di ogni gloria e onore.
F. Taegio, “Rotta e prigionia di Francesco primo, re di Francia, sotto Pavia l’anno 1525”, tradotta dal Cremonese Cambiago, Pavia, per Gio. Andrea Magri Stampatore della Città, 1655
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Francesco Taegio
La notte seguente, il felicissimo esercito imperiale, passata la mezza notte, abbandonati gli suoi alberghi, cominciò a inviarsi verso Pavia, & aggiunto al muro del varco, con certi travi subitamente in tre luoghi ruinò il muro & dentro v’entrò.
Il che inteso dal Rè di Francia, comandò egli che l’artigliaria fosse condotta verso Mirabello, al quale parea che andassino gli imperiali, & volle che gli Svizzeri, & Monsignore d’Obegnino, & Messer Anibale Guasco Alessandrino, & Francesco, Monsignore di San Polo, là caminassero.
& poi ordinò le squadre de gli huomini d’arme & de gli cavalli leggieri, frà gli quali erano gli lanzichenecchi dalla banda negra, & gli Provenzali, & alquanti Italiani, in uno battaglione insieme ristretti, & così in quattro parti fu l’esercito de’ Francesi distinto.
& come essi s’accorsero che l’altro esercito, precedendo l’artigliaria & la compagnia degli Italiani, gli veniva animosissimamente addosso, subito scoccarono contra di loro molte bocche di fuoco, per la qual cosa non solamente molti soldati imperiali furono morti, ma ancora l’ordinanza loro fu alquanto disturbata, il perché alcune compagnie ancora furono costrette a ritirarsi un poco.
Et benché il sig. Antonio de Leva, per il fummo grandissimo che era nell’aria, non potesse vedere ciò che gli due eserciti facessino, nondimeno egli, udendo il strepito & furore dell’artigliaria, con alquante bocche di fuoco, & con tutti gli soldati, subito saltò fuori di Pavia tutto allegro & gioioso, & costringendo a fuggire quelli fanti & cavalli leggieri, contra gli quali da lui fu dato il primo assalto, a ritrovare il resto de gli nemici francamente camminava.
& all’hora era già il crudelissimo fatto d’arme incominciato, & l’antiguardia de’ francesi, capitano della quale erano Monfignore dello Scu, Monfignore di Brion, & il valentissimo sig. Federico di Bozulo, havea acquistata l’artigliaria del campo imperiale. Onde, essendo gli soldati di questo esercito dalle ballotte francesi molto danneggiati, sforzatamente si ritiravano, il perché pareva che la fortuna in questo principio fosse molto a francesi favorevole.
Ma il sig. Marchese di Pescara, più che mai d’ingegno, ardire & franchezza abbondante, mandò di subito un messo al Vice Rè & al Duca di Borbone, con dir loro ch’ora era il tempo della battaglia, & che questo giorno era quello nel quale, se le prodezze loro mostravano, la vittoria doveva essere la sua & la sconfitta de gli nemici.
& poi, a gli suoi soldati rivolto, diceva: “Fratelli, hora è il tempo di far conoscere a tutto il mondo quanto voi valorosi sete, & certo, se voi farete secondo l’usanza vostra, tosto vedrete gli nemici nostri ruinati. Andiamo adunque & ben venturosamente assaliamo quelli, che Iddio senza dubbio all’impresa nostra favorevole sarà, & virilmente combattendo havremo ad ogni modo la vittoria, & così poi ancor con poca fatica grandissime ricchezze acquisteremo. Conquiste adunque!”
& molte altre simili parole al suo proponimento egli dispose, & poi, per farli più vaghi del combattere, non curandosi egli né di saette, né di lance, né di ballotte d’artigliaria, ma solamente dell’onore, ne gli nemici entrato, non altrimenti che un leone famelico nell’armento di giovenchi venuto, or questo, or quello fiaccando prima con i denti & con l’ugna la sua ira sfamava che la fame.
Così questo gentil Marchese, col stocco in mano, or questo, or quello tagliando de’ francesi, crudelmente molti n’occideva.
Et così egli, con le parole, ma molto più con quei meravigliosi fatti, sì focosamente gli fanti alla battaglia accese, ch’essi con scoppi, archebusi & haste ferrate cominciarono contra gli Svizzeri & Lanzichenecchi dalla banda negra a rivoltarsi.
Et combattendo essi Svizzeri nel principio potentemente, subito il sig. Marchese del Vasto, dal dito d’honore spronato, seguito da alquanti suoi più cari, quasi tutti gli nemici per niente haveffe, fra loro con un tocco in mano si cacciò. Et hor questo, hor quello ferendo, quasi pecore gli abbatté. Il che vedendo gli Svizzeri, voltate le spalle cominciarono a fuggire, & così abbandonando quelli Lanzichenecchi & Italiani ch’erano al soldo del Rè di Francia, lasciarono che essi cogliessero quegli spietati & crudelissimi colpi.
In questo mezzo, gli huomini d’arme francesi s’attaccarono con gli huomini d’arme Imperiali, i quali, benché molti meno degli nemici fossero, nondimeno non punto sbigottironsi, ma stettero saldi a quel primo empito & furore francese. Et già l’una & l’altra parte virilmente combattendo, cominciarono cinquecento archebuseri, ch’erano istati in mezzo degli huomini d’arme Imperiali molto avvedutamente posti, gli loro archebusi a scoccare. Il perché molti francesi da loro percosse a terra traboccavano.
Non per questo però restavano il Vice Rè & il Duca di Borbone di prodemente anco essi contra alcuni altri nobilissimi baroni combattere, per la qual cosa il Cristianissimo Rè, da’ suoi gentilhuomini d’ogni intorno circondato, contra gli Imperiali grandissime prodezze mostrava.
Egli fu colui che uccise il banderato del Conte Salmo, capitano d’una compagnia di Tedeschi mandata al soccorso di Pavia dall’eccellentissimo Arciduca d’Austria, Ferdinando, e questa compagnia fu la prima che contra i Francesi s’azzuffò.
Et benché il signor Marchese di Pescara già si sentisse ferito nella faccia, nel ventre et in una gamba, nondimeno egli, havendo care quelle ferite fuora ogni tesoro, et vedendo che molti de’ suoi erano smarriti per gli gran fatti che facea il Cristianissimo Re, sempre da maggiore ardire acceso, gli sbigottiti confortando, tutta via rinfiammava nova gente in quel luogo, ove maggiore vedea esser il bisogno.
Et dall’altro canto, il Duca di Borbone a quelle compagnie Tedesche, delle quali capitano era il signor Georgio Frundsberg, dell’Imperadore consigliero, et a quelle de’ fortissimi Borgognoni, rivolto dicea:
”Non crediate già, fratelli carissimi, ch’io a così grande impresa pazzamente v’havessi condutti, s’io non havessi prima conosciuto l’ardire et la valorosità vostra. Et perciò non punto mi diffido che voi dobbiate temere questa poca di furia fatta da costoro, che più tosto per prezzo et paura di peggio combattono, che per vaghezza alcuna ch’habbino d’honore o d’amore del suo Re. Et io son certo che, se essi non si confidassero un poco nella moltitudine, con la sola quale di gran vantaggio ci cedono, già si sarebbero fuggiti. Ma questo non vi debbe sbigottire, perciò che voi a loro d’ingegno et ardire siete superiori, et perciò io fermamente spero che oggi la gloria, l’honore et l’utile sarà il nostro!”
Et detto questo, egli il primo con la lancia di nuovo corse contra gli nemici, et durato che fu una hora il combattimento, cominciarono de’ Francesi a fuggire chi in qua, chi in là. Et così molti di loro n’erano feriti et molti fatti prigioni, per la qual cosa la vittoria fu degli Imperiali, de’ quali solamente il Marchese di Città Sant’Angelo, capitano d’huomini d’arme, et circa ottocento altri soldati di vita privi restarono.
Ma della fazione francese quasi tutti gli Italiani et gli Lanzichenecchi della banda negra, et mille e cinquecento Svizzeri furono occisi, et tutti gli altri agli Imperiali vinti s’arresero, cavandone cinquecento, i quali, credendosi fuggire nel Ticino, s’annegarono.
Ercoli, in questo conflitto ne restarono fra l’una parte & l’altra circa sette miglia huomini morti, i corpi de’ quali si vedeano per due miglia fuora la terra senza spirito riversciati, fra gli quali vi furono l’armigliaio del Rè, & uno suo figliolo, Monsignore della Pelliza, Monsignore della Tremoglia, Monsignore di Buff, Monsignore di Chiamon, Monsignore di Bubanfi, & il signore Galeazo Sanseverino.
I corpi de’ quali, la mattina seguente, furono portati nella chiesa di Santo Paolo, & fu sviscerati, & con aloe & altri olii unti, acciò più agevolmente dalla putrefazione fossero conservati, & poi con minor fastidio in Francia condotti.
Et il signore Galeazo Sanseverino fu egli dalla sua famiglia, che tutta per doglia lagrimava, portato nella Certosa.
Et benché il Cristianissimo Rè in questo fatto d’arme molte cose meravigliose facesse, non dimeno egli, mancandogli sotto il corsiero, che già era gravemente ferito, cascò in terra, & calcato che fu, subito si vide intorniato da tre Baroni del Vice Rè di Napoli, ai quali, non volendo in alcun conto arrendersi, fu sorpreso da esso Vice Rè, che havea il stocco nudo in mano, & da lui con ogni riverenza nuovamente a rendersi esortato.
Considerando che in darno poteva sperare aiuto, alle sue voglie si piegò.
Et così esso Cristianissimo Rè fu fatto prigione, & chiedendo egli di grazia speciale, fu onorevolmente accompagnato nel Convento di Santo Paolo, ove soleva, innanzi che il campo dell’Imperador alla campagna si appresentasse, essere il suo albergo.
Fatto adunque prigione il Rè di Francia, di subito ancora furono presi il Rè di Napara, il Gran Bastardo di Savoia, il Legato del Pontefice, Monsignore Mamorant, Monsignore di Florenge, Monsignore dello Scu, Monsignore di Bonavalle, Monsignore di San Polo, il signor Galeazzo Visconte, il valentissimo signor Federico di Bozulo, il Principe di Lorenna, Monsignore di Brion, Monsignore d’Obegnino, il fratello del Marchese di Saluzzo, & molti altri nobilissimi baroni.
Et cosa meravigliosa parve all’hora a tutti, imperoché essendo una foltissima nebbia nell’aria, subito prigione che fu il Cristianissimo Rè, Sole d’ogni intorno i fiammeggianti raggi suoi sparse, & perciò dicevano gli Imperiali: “Ecco che ‘l cielo di tal vittoria si rallegra con noi”.
Ma Monsignore di Lanfon, come egli vide che gli Suizzeri fuggivano, & che tanti altri Francesi erano o morti o fatti prigioni, con quattrocento lanze cominciò a caminare verso la Francia, & così si salvò.
Et benché i Francesi spezzati & fracassati fuggissero, non dimeno il signor Antonio Leiva, & il Conte di Lodrone, con le sue compagnie, gli seguirono un gran pezzo, & poi ch’ebbero molti nobilissimi prigioni guadagnati, vittoriosi & carichi di ricchissime spoglie se ne tornarono in Pavia.
La quale quel dì medesimo restò dalla crudelissima offidione libera, per la qual cosa ella, & tutta Lombardia, è tenuta a rendere lodi a quello, che solo è d’ogni gloria & honore dignissimo.
F. Taegio, “Rotta e prigionia di Francesco primo, re di Francia, sotto Pavia l’anno 1525”, tradotta dal Cremonese Cambiago, Pavia, per Gio. Andrea Magri Stampatore della Città, 1655