
L.M.
(Parte VIII – L’onore nella sconfitta e il trionfo imperiale)
Si dice che quel giorno, sul campo di Pavia, giacessero i corpi di diecimila uomini, travolti dal fuoco, dal ferro e dal destino. La battaglia era finita, ma il dramma della guerra non si era ancora concluso.
Francesco I, ormai prigioniero, fu condotto in campo da Lanoia, ancora armato e fiero, come se volesse celare la sconfitta dietro la dignità della sua persona. Qui incontrò il marchese del Vasto, il quale, reduce dall’inseguire i superstiti svizzeri, venne a sapere che il Pescara, suo cugino e comandante, era stato falsamente dato per morto.
Alla vista del re, il marchese smontò da cavallo, lo prese per mano e fece allontanare i soldati imperiali che lo circondavano, ché la dignità d’un monarca non doveva essere profanata dalla calca. E così, senza bisogno di parole, fece vergognare coloro che, senza alcun rispetto per la maestà caduta, lo serravano come fosse un comune prigioniero.
Il re, vedendo in lui un uomo di valore e di onore, parve quasi rincuorarsi, e rivolgendosi al marchese parlò con gravità e amarezza:
“Io avea deliberato, morendo onoratamente fra gli armati, di liberare l’animo da questa così grande asprezza delle cose mie, per non rimanere in vita dopo la morte di tanti miei chiarissimi capitani. Ma la fortuna, già molto tempo asprissimamente e a gran torto nemica al nostro nome, per riservar la vita mal mio grado a spettacolo della sorte che mi schernisce, non m’ha lasciato onoratissimamente morire.”
E con voce ancora più ferma, quasi parlasse non solo per sé, ma per tutta la Francia, aggiunse:
“Con questo solo, nondimeno, mi consolerò: che per l’avvenire io non temerò più d’alcuna ingiuria della fortuna. Perciocché ella, crudelissima e sempre infuriando, né ancora mai per tante rotte abbondantemente saziata, ora finalmente avrà spento il rimanente dell’odio suo in questo pubblico pianto di tutta la Francia e nella mia suprema perdita.”
Quelle parole, pronunciate con la solennità di un uomo sconfitto ma non spezzato, colpirono nel profondo i vincitori, ché nella rovina si mostrava ancora la nobiltà del re. E molti tra gli imperiali, che fino a un attimo prima si erano abbandonati alla gioia della vittoria, si fermarono a contemplare quell’uomo con rispetto e stupore.
Per volontà dello stesso Francesco, egli non fu condotto tra i vincitori nella polvere e tra lo scherno, ma fu portato nell’accampamento francese, ché egli non voleva essere esposto agli insulti dei pavesi, i quali avevano molto sofferto per mano sua durante l’assedio e certo non gli avrebbero risparmiato le offese.
Curato delle sue ferite – una alla coscia, una alla mano, una sulla guancia, tutte leggere – si riebbe in breve tempo. La sua corazza, più volte colpita dalle palle di archibugio, aveva retto, e gli uomini pii giudicarono che fosse stato salvo per miracolo, ché egli portava un frammento della croce di Cristo in un reliquiario d’oro al collo.
Si narra che Borbone, il grande traditore, volesse inginocchiarsi dinanzi al re e baciargli la mano. Ma Francesco I, con un animo più grande della sua sventura, non mostrò né ira né rancore, e si mantenne di volto sereno e di cuore fermo, quasi a voler dimostrare che la sconfitta, pur dolorosa, non lo aveva umiliato.
Eppure, si dice che Borbone abbassasse il capo, vergognoso, ché sapeva bene che il suo nome era ormai macchiato, non solo agli occhi del re, ma anche nella memoria di tutti coloro che parlavano della battaglia.
Quella sera, Francesco I cenò con Lanoia e il marchese del Vasto, accogliendoli non come carcerieri, ma come uomini d’onore. E fu Borbone stesso a porgergli lo sciugatoio per lavarsi le mani, quasi volesse redimere con quel gesto l’infamia della sua ribellione.
Ma il re non era un uomo che cedesse al rimorso degli altri. Dopo la cena, ripercorse gli eventi della battaglia, spiegando con parole gravi e lucide ogni sua scelta, come se stesse ancora dando ordini ai suoi capitani. E coloro che lo ascoltavano compresero che egli, potendo ricominciare daccapo, avrebbe combattuto ancora, ché la sua determinazione non era stata piegata dalla disfatta.
Ma la sua voce si fece più amara quando parlò del tradimento degli svizzeri, i quali avevano mancato alla loro fama e alla fiducia che riponeva in loro. Biasimò gli italiani, i quali avevano falsato i numeri delle loro schiere per ottenere maggiori paghe, e infine si dolse della cavalleria, che troppo presto aveva lasciato il campo, privando il suo esercito dell’ultima speranza di vittoria.
E con una fermezza che suonava quasi come un’accusa al destino, concluse:
“Tutto si è mosso in favore dell’imperatore, non per errori d’uomini, ma per sorte fatale.“
E con queste parole, lasciò cadere il peso della disfatta sulle spalle della Fortuna stessa, quasi volesse congedarsi non come re sconfitto dagli uomini, ma tradito dagli dèi.
Dopo la battaglia, Francesco I fu condotto a Pizzighettone, dove rimase sotto stretta custodia. Qui venne visitato dal Pescara, che, pur ferito e ancora sofferente, volle vedere con i suoi occhi il re vinto.
Ma egli non si presentò con la pompa dei vincitori, né con la ricchezza delle spoglie di guerra, come fecero molti altri, vestiti d’oro e di velluti presi dai nemici sconfitti. No, il Pescara si presentò vestito di nero, con il semplice saio di un soldato, quasi volesse ricordare che la guerra è tragedia anche per chi la vince.
Quando Francesco lo vide, non trattenne la meraviglia. Guardò a lungo quell’uomo, e infine, con una calma che conteneva rispetto e rassegnazione, disse:
“Io non avrei mai pensato, valoroso Pescara, che avrei potuto stimare ed amare colui che più d’ogni altro è stato mio nemico e colui che ha piegato la mia fortuna.”
E con queste parole, riconobbe non solo la grandezza della disfatta, ma anche la virtù di chi l’aveva sconfitto.
Così terminava la Battaglia di Pavia, e con essa l’egemonia francese in Italia.
Ma il destino di Francesco I era ancora da scrivere.
L’Europa intera guardava al prigioniero, mentre Carlo V attendeva di decidere la sorte di un re caduto.
La guerra era finita, ma la storia appena cominciava.

Paolo Giovio
Dicesi che in quella battaglia vi morirono da diecimila persone.
Il re, armato com’egli era sopra una picciola chinea, essendo menato in campo dal Lanoia, incontrò il marchese del Vasto.
Costui per avventura ritornava allora da perseguitar gli svizzeri per avere nuova più certa del Pescara, il qual falsamente si diceva fosse stato morto.
Subito allora il marchese del Vasto smontò da cavallo e, prendendo il re per la mano, fece allargare il cerchio dei soldati, i quali volontariamente lo guardavano serrato in mezzo, talché fece vergognar coloro che, senza quasi nessun rispetto a Sua Maestà, così stretto tenevano il re già preso.
Allora il re di Francia, rincoratosi non poco con l’aspetto di lui, cominciò a parlare.
Perciocché essendo egli onorato estimatore di gran virtù anche nel nemico, vedendolo riguardevole e tutto grazioso per il fiore della giovinezza e per la bellezza del corpo, e pieno d’ogni virtù ed eleganza militare, grandemente l’amava.
Dove, consolandolo il marchese e lodando grandemente la grandezza d’animo e l’umanità che era in Carlo Imperatore, il re disse:
– Io avea deliberato, morendo onoratamente fra gli armati, di liberare l’animo da questa così grande asprezza delle cose mie, per non rimanere in vita dopo la morte di tanti miei chiarissimi capitani.
Ma la fortuna, già molto tempo asprissimamente e a gran torto nemica al nostro nome, per riservar la vita mal mio grado a spettacolo della sorte che mi schernisce, non m’ha lasciato onoratissimamente morire.
Con questo solo, nondimeno, consolerò me medesimo nella memoria di così gran perdita: che per l’avvenire io non temerò più d’alcuna ingiuria di fortuna.
Perciocché ella, crudelissima e sempre infuriando, né ancora mai per tante rotte abbondantemente saziata, ora finalmente avrà spento il rimanente dell’odio suo in questo pubblico pianto di tutta la Francia e suprema mia perdita per il caso di tanta sciagura.
Con queste parole egli mosse quasi le lacrime non solo ai vincitori, i quali avevano preso singolare allegrezza, ma ancora, con la considerazione di così gran vittoria, confuse talmente gli animi d’ogni sorta di soldati, i quali gli erano d’intorno, che facilmente dalle uccisioni e dalla preda si rivolgevano d’ogni parte allo spettacolo di così gran re preso.
Fu menato di sua commessione nel campo dei francesi per non essere veduto con scherno in quella fortuna dai pavesi, ai quali aveva fatto gran danni, e dai soldati superbi che v’erano stati in difesa, i quali si riputavano grandemente afflitti da lunghi incomodi dell’assedio sostenuto.
Quivi facilmente guari di quelle ferite ch’egli avea ricevuto, ma però leggiere, nella parte di dietro della coscia, nella mano destra e in cima d’una gota.
Aveva anco tanto ben sostenuto alcune archibugiate nella corazza doppia che, portando egli al collo un pezzo della croce di Cristo serrato in un cassettino d’oro, dagli uomini devoti era tenuto per miracolo che non fosse stato morto.
Dicesi che il re, a Borbone che gli si mise alle ginocchia e volle baciargli la mano, non si mostrò punto corrucciato, ma in abito di chi con animo quietissimo ogni cosa sopporta.
E che Borbone, abbassando il volto, mostrò segni chiari di vergogna e di penitenza, come colui che manifestamente vedeva che, non solo nel tacito pensiero di tutti, ma ancora con liberi ragionamenti, era gravemente biasimato e che il nome della sua ribellione era lungamente sparso per ogni luogo.
Cenarono col re, invitati da lui con gran preghi, don Carlo di Lanoia e il marchese del Vasto, e lavandosi, Borbone, per cagion d’onore, gli porse lo sciugatoio alle mani.
Ma il re, entrato a ragionare del successo della battaglia, con così gravi e così eloquenti parole rese conto de’ suoi consigli, raccontando particolarmente ogni cosa secondo il costume di valente capitano, che coloro, che gli erano d’intorno, giudicarono che, se le cose si fossero potute riprendere da capo, egli non avrebbe dubitato di dire che era pronto a combattere ancora, quasi che con ottima condizione.
Ma essendo stato ingannato dagli svizzeri, i quali vituperosamente avevano mancato non solo all’opinione sua ma ancora a quella di ognuno, e avaramente truffato dagli italiani, i quali nel fare la rassegna delle fanterie erano usati di riferire il numero falso dei soldati, e finalmente abbandonato troppo tosto dal terzo squadrone di cavalleria, con nessuna arte di valore di guerra né con veruno sforzo di animo costante non aveva potuto rimettere la battaglia una volta inclinata.
In questo modo, avendo quasi congiurato insieme ogni cosa per servire alla fortuna dell’imperatore, più tosto per fatale sorte che per error d’uomini, a loro era riuscito felicemente ogni cosa e a sé male.
Non mi pare di dover tacere in questo luogo una cosa che io giudico appartenersi alla fede della storia e parimente alla mia diligenza: che tutte quelle cose, le quali si contengono in questo particolare volume, io le ho avute di bocca di principi e capitani grandissimi.
L’amicizia dei quali, quasi tutti, ancorché fossero di lingua straniera e di natura molto aspra, per cagion di ritrarne il vero io mi vanto d’avere avuto, con tanta perseveranza e felicità di curioso ingegno che, non solo rappresento espressi negli scritti i costumi, i consigli e i fatti loro, ma ho fatto ritrarre ancora l’effigie di tutti dal naturale per diletto di chi gli vede nel mio museo.
Ma in questo lungo e difficile studio d’onesta fatica non ci è stato veruno il quale più liberalmente né più gentilmente m’abbia favorito che il re Francesco.
Perciocché, avvalendosi egli della sua mirabile memoria ed essendo usato di coprire liberalmente i secreti dell’animo suo, con maraviglioso ordine e con intera fede mi raccontò particolarmente ogni cosa del successo di questa giornata, la prima volta a Marsiglia e dopo alquanti anni a Nizza.
E ciò veramente fece egli con tanta mia maraviglia che quelle cose ch’erano incerte e oscure, paragonato il testimonio dei nemici, confesso che chiarissimamente egli le aveva comprese.
E meritatamente io giudico che così gran re, poco dianzi immaturamente morto, come degno d’assai più lunga vita, meritatamente doveri essere celebrato.
E non molto dopo fu menato in guardia a Pizzighettone.
Quivi venne allora il Pescara, non essendo ancor ben guarito della ferita del volto, e visitò il re, non vestito di velluto e d’oro come gli altri, i quali dopo quella vittoria, in guisa di pompa, s’erano ornati di spoglie francesi, ma per singolar modestia d’animo in saio di panno nero, quasi che egli mostrasse abito non di vincitore ma di vinto, e per palesare ancora non finto dolore d’aver compassione alla sorte della condizione reale.
Venendo egli dunque accompagnato da una turba d’onorati capitani come dalla guardia della sua persona, il re Francesco così umanamente e volentieri abbracciollo, che tenne alquanto l’animo e gli occhi fissi nella maraviglia di quell’uomo.
Ed entrato poi in ragionamenti più gravi, con gravità di gesto e di volto non mesta ma molto piacevole, diruppe in queste parole:
— Io non avrei mai pensato, valoroso Pescara, che per natura si potesse fare ch’io potessi con pieno affetto amare e riverire colui il quale sopra tutti gli altri nemici è stato contrario al nome francese, e a me, poi vinto e preso, ha dato una gravissima rotta.
Ma veramente conosco benissimo, con questo mio non meno nobile che doloroso esperimento di cose, che tanta è la forza d’una eccellentissima virtù che facilmente, come dall’oscuro a un chiarissimo lume, rivolge gli occhi d’ognuno in sé medesimo.
La quale in ogni parte riluce con maraviglioso splendore, e poi ancora potentissimamente signoreggia gli animi stessi.
Ma voi, Pescara, farete ben cosa degna della illustre fama vostra se, con quel tenore di chiara virtù col quale più volte felicemente avete vinto me e i miei capitani, farete ogni opera perché questo onore di singolar vittoria, che la vostra virtù e la fortuna hanno guadagnato all’imperatore, per l’altezza dell’animo e per la sua gran virtù, molto più onorato e più illustre di gran lunga diventi.
Di maniera che egli, con l’esempio dei grandissimi re, a me vinto e preso renda la libertà con giuste condizioni.
Perciocché io, ritrovandomi ancora in questa mia calamità, non ho invidia all’illustre imperatore di regni né d’imperi, né della fortuna che così onoratamente favorisce i suoi desideri.
Ma ben gl’invidio piuttosto questo luogo di dono divino, che la benigna sorte, con la mia ruina, gli ha aperto per inalzare il nome suo fino al cielo.
E certo che i grandi imperi si possono acquistare con forza e con ricchezze, ma la fortuna, le più volte, quando credi ch’ella ti sia rivolta, fugge a suo piacere, e in picciol momento dileguata ti si volge contro.
Mentre che in poter dell’imperatore, per rara felicità, è posto il potere acquistarsi immortal gloria d’umanità e di clemenza grande, e con sicura mano volere coglier frutto di nobilissima lode, il quale non gli terrà nessuna violenza, né il fato istesso ancora cancellerà mai per alcun tempo.
Perciocché, dopo la vittoria acquistata, il cui nome e onore spesso s’usurpano i capitani minori e i soldati, non è alcuno più chiaro trionfo nella fortuna reale quanto l’essere grandissimamente celebrato per la grandezza d’animo generoso, con singolar testimonio di virtù propria e vera.
A queste parole, ragionando il Pescara alcune poche cose, le quali appartenevano a dichiarare la temperanza e umanità dell’imperatore, gravemente e leggiadramente rispose, aggiungendo quanto egli suole essere piacevole e giusto in ogni controversia e differenza, e quanto egli allontanava tutti i suoi sentimenti dalla crudeltà e dalla durezza, siccome colui che fin dalla sua fanciullezza, per la facile e piacevole sua natura, non mai da disordinati e superbi ma da onorati e virtuosi pensieri era guidato all’amore della virtù e della pace.
E che egli da principio non aveva mosso quella guerra, ma stimolato da gravissime ingiurie, l’aveva in tal modo ributtata che, dopo molte vittorie, con giuste condizioni era per lasciar luogo alla pace e alla concordia.
E per questo egli sperava che l’imperatore con tanta temperanza d’animo avrebbe usato quella vittoria, che non avrebbe chiesto dal re vinto, oltre l’onesto, più di quello ch’essendo intere le cose era usato di chiedergli, e che poco dopo, per singolare liberalità dell’imperatore, sarebbe stato restituito all’affannata madre e ai suoi carissimi figliuoli.
Con questi ragionamenti, il re Francesco sollevò l’animo infermo a certa speranza di dover essere tosto libero, giudicando che l’imperatore sarebbe rimasto contento della sola felicità della vittoria e che in quella non avrebbe cercato alcuna cosa insolentemente, ma solo d’acquistarsi nome d’umanità e di clemenza.
Del cui animo, non punto crudele né superbo, sapeva ch’egli aveva già mostrato onorati segni, perché l’imperatore, il quale era allora a Barcellona, con nessuna allegrezza aveva ricevuto la nuova di così gran vittoria, la quale s’era acquistata ancora nel dì medesimo ch’egli era nato.
Ma con singolare devozione, comandate solamente le processioni per tre giorni, acciocché questo prospero successo della guerra tornasse in utile alla repubblica cristiana, non aveva voluto che la pubblica allegrezza si celebrasse con festa di fuochi né con sparar d’artiglierie.
La Vita del S. Don Ferrando Davalo Marchese di Pescara, Scritta per Mons. Paolo Giouio Vescouo di Nocera Et tradotta per M.Lodouico Domenichi nuouamente da lui reuista , & ristampata, con la tauola delle cose notabili - In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, MDLVI