La cronaca di Martino Verri durante la Settimana Santa
Dopo la tremenda Battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525, e la fuga di Francesco I nelle mani dell’Imperatore, ci si sarebbe attesi che la città potesse finalmente respirare. Ma, come annota con amara precisione Martino Verri, la pace non fu che un’illusione fugace.
Con l’assedio terminato e la vittoria degli imperiali consolidata, gli Alamani, truppe tedesche che avevano combattuto nella città, si trovarono senza paga. E senza paga non v’è disciplina. Cominciarono dunque a pretendere non solo gli arretrati, ma anche due mensilità extra: una sorta di premio per il loro “buon servire”.
Secondo Verri, la situazione si fece presto insostenibile:
“…giurarono di non partirsi da essa città di Pavia sino a che non erano totalmente sodisfatti…“
Nel frattempo, pretendevano vitto e alloggio dai cittadini, che per due mesi subirono spese, angherie e soprusi. L’aria si faceva pesante, e le fatiche dell’assedio venivano raddoppiate dalle offese dei “liberatori”.
La minaccia culminò il Venerdì Santo — che nel 1525 cadde il 14 aprile (secondo il calendario giuliano) — quando i soldati minacciarono di mettere a sacco l’intera città.
“Et certo che l’haverebbero fatto, li arrabiati…“
Furono trattenuti solo grazie all’intervento di tre comandanti imperiali: Giovanni Battista Lodrone, Corradino e Massimiano, i quali promisero il pagamento entro quindici giorni.
E così si giunse, non senza sofferenze, alla Domenica in Albis (23 aprile 1525), quando finalmente i soldati furono pagati e lasciarono la città.
Verri chiude il suo racconto con una nota quasi malinconica, ricordando che quella fu la prima ricompensa per la fedeltà dei cittadini verso il loro signore:
“…in cambio di ricevere premio delle loro fatiche et stenti […], hanno ricevuti novi danni et nove passioni.“
La città, però, ritrovò finalmente quiete. Da quel giorno fino al marzo del 1527, Pavia visse una parentesi di relativa tranquillità.
Una tregua fragile, come le acque di primavera dopo la piena.