
L.M.
(Parte VI – La resa di Francesco I e il trionfo imperiale)
La battaglia, ormai decisa, non cessava di reclamare vite e sangue. Il campo di Pavia era divenuto un mare di cadaveri, uomini e cavalli giacevano ammassati, schiacciati dal ferro, dal fuoco e dal fato crudele. Eppure, anche nel disastro, si combatteva ancora.
Tra i molti caduti, vi fu il Palissa, uomo di grande esperienza e valore, il quale, sfinito dalle ferite e dalle fatiche, si ritirava tra gli svizzeri. La cavalleria imperiale lo raggiunse e lo fece prigioniero, ma un soldato spagnolo, bramoso di gloria e ricompensa, lo finì con un colpo di archibugio, senza riguardo per l’onore della guerra. Così morì un altro dei grandi capitani di Francia, non sul campo, ma per mano di un misero soldato che volle prendersi la fama con la crudeltà.
Galeazzo Sanseverino, fedele alla sua stirpe e alla sua patria adottiva, ancora combatteva, ma il destino lo colse. Quando il suo cavallo cadde sotto di lui, egli si rivolse a Guglielmo di Lange, un giovane cavaliere che tentava di soccorrerlo, e con voce ferma e dignitosa gli disse:
“Deh, figliuolo, lasciatemi pur morire. Partitevi di qui quanto più tosto potete, andate a difendere il re. E se voi scamperete, siate contento di fare amichevolmente memoria del nome e dell’onorato mio fine.”
Così, morendo alla presenza di Francesco I, onorò fino all’ultimo la sua lealtà e il suo nome.
Intorno a loro, la battaglia si faceva sempre più crudele. Gli spagnoli, addestrati alla guerra moderna, non lasciavano scampo alla cavalleria francese. Da ogni lato il piombo degli archibugi falciava uomini e destrieri, ché la guerra d’un tempo, fatta di cariche e onorevoli scontri d’acciaio, moriva sotto il nuovo potere del fuoco.
I francesi, stretti insieme, cercavano ancora di avanzare, ma ogni passo avanti costava la vita di cento uomini. Chi voleva fuggire non trovava scampo, ché il campo era ingombro di cadaveri e di compagni morenti. Il sangue aveva reso il terreno una palude di morte.
Guglielmo Bonivetto, ammiraglio di Francia, non sopportò di vedere la sua armata spezzarsi. Egli, che aveva creduto in questa guerra, non poteva vivere nella vergogna di una simile disfatta. Con ira e disperazione, si gettò volontariamente in mezzo ai nemici, levando la visiera come chi vuole mostrare il volto alla morte, e senza opporre resistenza, offrì la gola alle spade.
Mentre i più valorosi cadevano, il re di Francia ancora resisteva.
Francesco I combatteva con l’ardore e la disperazione di chi sa che tutto è perduto, ma non si vuole arrendere alla sorte. Attorno a lui, molti ancora tentavano di difenderlo, ma la pressione degli imperiali si faceva insostenibile.
Allora il re spronò il suo cavallo e si fece largo tra i nemici, affrontando con la spada chiunque gli si parasse dinanzi. Ferito e sanguinante, non si ritirava, ma menava colpi con l’energia della disperazione.
Eppure, anche il più fiero dei re non può resistere alla guerra quando essa lo ha già sconfitto.
Mentre cercava di allontanarsi dal campo per riorganizzarsi, il suo cavallo, già stremato dalle ferite, si abbatté sotto di lui, trascinandolo con sé nel fango e nel sangue della battaglia.
Fu allora che gli imperiali lo circondarono.
Diego d’Avila e Giovanni Arbieta, due biscaglini dell’esercito imperiale, furono i primi a raggiungerlo. Vedendolo a terra, gli puntarono le spade al petto e lo invitarono ad arrendersi, ché resistere era ormai vano.
Ma il re non voleva cadere in mano di qualunque soldato, e nel mentre arrivava un certo Motta, capitano della cavalleria di Borbone, che cercò di convincerlo a consegnarsi nelle mani del duca.
Al solo sentire il nome del traditore, Francesco I si rifiutò con sdegno, e con la fierezza di un re caduto in disgrazia, rispose con voce ferma:
“Andate a chiamare il Lanoia.”
E così fu fatto.
Mentre il Motta si affrettava a riferire, Lanoia, già avvisato del fatto, accorse. Quando giunse presso il re, scostò la folla dei soldati imperiali, si avvicinò e gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Allora Francesco I, sconfitto ma non umiliato, accettò la sua sorte.
Gli imperiali, vedendo il loro più grande nemico finalmente prigioniero, levavano il grido di vittoria.
Il campo era loro. La guerra era finita.
Gli svizzeri, vedendo il re caduto, si diedero alla fuga senza più ordine, senza più onore. Molti, nella disperazione, si gettarono nel Tesino, ma non sapendo nuotare, finirono per annegare uno sull’altro, in una miseria degna d’un esercito distrutto.
Chi rimaneva in piedi, si gettava ai piedi degli imperiali implorando la vita. Ma la clemenza, quel giorno, era una merce rara. La vittoria rende gli uomini superbi, e gli spagnoli, ebbri di trionfo e sete di vendetta, non si fermarono nella loro furia. I soldati di Antonio da Leva, che solo allora uscivano dal castello e da Porta Nuova, menavano le mani più crudelmente di tutti, ché volevano recuperare col sangue il tempo perduto.
I francesi non esistevano più. Il loro re era prigioniero, la loro armata distrutta, il loro sogno italiano sepolto nel fango di Pavia.
Era l’alba di una nuova era. L’Impero aveva vinto.
Nel prossimo capitolo, il re sconfitto verrà condotto al cospetto dei vincitori. La gloria imperiale brillerà sul campo di Pavia, mentre la Francia intera si piegherà sotto il peso della disfatta. Seguite il prosieguo della cronaca di Paolo Giovio, ché la storia non si ferma, e già si prepara a scrivere il destino d’Europa.

Paolo Giovio
Il Palissa, mentre che, mortogli il cavallo sotto, aggravato dagli anni e dall’armi, si ritirava agli svizzeri, fu preso dalla cavalleria; ma essendosi egli già reso al Castaldo che gli sopraggiunse, un soldato spagnuolo, quasi che invidiasse il prezzo e la lode di così gran prigione alla cavalleria, appoggiatogli un grosso archibugio alla corazza, crudelmente l’uccise.
Morì di due ferite ancora il Tramoglia, capitano vecchio di molte vittorie. Galeazzo Sanseverino anch’egli, mentre che con singolar maestria qua e là spingendo il cavallo discostava i nemici e onoratamente combatteva, morendo alla presenza del re, con onorata fine di vita sodisfece a quel che egli doveva alla grazia reale e al suo onore.
Mentre che, cadendogli sotto il cavallo, cadeva anch’egli, rivolgendosi a Guglielmo di Lange, cavaliere illustre, il quale in quello estremo caso lo voleva soccorrere, gli disse:
– Deh, figliuolo, lasciatemi pur morire: e partendovi di qui quanto più tosto potete andate a difendere il re, e se voi ne scamperete siate contento di fare amichevolmente memoria del nome e dell’onorato mio fine.
Era quella battaglia molto pericolosa e grandemente contraria ai cavalli francesi, perciocché gli spediti spagnuoli, i quali d’ogni parte li avevano circondati, gli tiravano infinite palle di piombo.
Le quali, scaricate non più da scoppietti (come poco dianzi s’usava) ma da pezzi più grossi, che si chiamano archibugi, passavano dall’una all’altra banda non pure gli uomini d’arme, ma spesse volte ancora due soldati e due cavalli.
Tal che le campagne, coperte da una miserabile uccisione di nobili cavalieri e di cavalli, che morivano in un medesimo tempo, nocevano alla virtù della cavalleria.
Ristretti insieme si sforzavano di spingere innanzi, ed essendo per tutto quasi fatti i monti di loro, se alcuno aveva più cara la vita che l’onore, non poteva anco comodamente fuggire.
In tanta iniquità di cose, Guglielmo Bonivetto, ammiraglio, poi che scorrendo alquanto e confortando si fu sforzato di fare animo agli svizzeri e agli uomini d’arme posti in fuga, riconoscendo egli senza dubbio la fortuna contraria di quella giornata e non volendo rimanere in vita dopo così gran rotta, della quale si diceva ch’egli era stato principale autore, alla pena e alla vergogna, con grave e ostinato animo corse in mezzo dei nemici.
E quivi, alzatosi la visiera secondo il costume dei capitani i quali trascorrono e comandano, offrendo la gola alle spade, fu ucciso.
Ma il re Francesco, essendo spogliato quasi da ogni presidio e guardia del suo corpo, avendone tanti morti all’intorno e gli altri cercando, fuggendo, di salvarsi, mentre che si voleva sbrigare, alcuni cavalieri mescolati di diverse compagnie, che lo videro in abito onorato, si diedero a perseguitarlo.
E però l’animoso re non si perdé punto di cuore, benché fosse abbandonato dal cavallo e dalla fortuna, ma piegando a ogni parte il cavallo, adoprava lo stocco contro coloro che gli venivano addosso.
E dato e ricevuto alcune ferite, valorosamente si difendeva.
Ma mentre che s’incamminava a un ponte vicino d’un fosso, ferito e cadendogli addosso il cavallo, fu abbattuto.
Furono i primi di tutti gli altri ad assalirlo, quando egli era sotto il cavallo, Diego d’Avila e Giovanni Arbieta, biscaglino.
Né avendolo ancora conosciuto, messogli le spade al petto lo confortarono a rendersi, se non voleva esser morto.
In questo mezzo, sopragiungendogli il Motta, anoverese francese, il quale era capitano della cavalleria di Borbone, fu riconosciuto in volto, bench’egli avesse d’una ferita tutta la faccia imbrattata di sangue.
Ma mentre che il Motta lo confortava a che si arrendesse a Borbone, il quale non era molto lontano, il re, sdegnandosi nell’udire il nome d’un traditore e quasi che comandando, disse:
– Andate a chiamare il Lanoia.
Il quale, mentre che il Motta correndo andava a ritrovar Borbone, cercato per tutto dalla voce de’ soldati, giunse quivi a tempo, e fatto discostare la turba di coloro che gli erano d’intorno e toltogli d’addosso il cavallo, porgendogli la mano, l’aiutò a rizzarsi.
Diego d’Avila fu il primo che gli tolse la manopola di ferro, e gli altri che gli erano appresso, stracciandogli la sopravveste, la partirono fra loro; altri gli tolsero la cintura e gli sproni, affrettandosi ognuno a pigliare qualche cosa delle spoglie del re per poterla poi mostrare a onore e domandare per ciò premio.
Preso che fu il re, gli imperiali per tutto gridarono “Vittoria!”
L’animo cadde ai francesi.
In ogni parte vituperosamente si fuggiva: gli svizzeri, paventati mentre che erano tagliati a pezzi a modo di bestie, si gettavano nel Tesino, e non sapendo punto nuotare, miseramente attaccati e impediti insieme, affogavano.
Altri, gettando l’armi, umilmente domandavano la vita in dono.
Ma in quel giorno rara lode d’umanità e di misericordia si vide nei soldati, se non poi che furono stanchi per molta uccisione.
Perciocché quella gran vittoria li rendeva superbi e crudeli, e i soldati d’Antonio da Leva, i quali tardi erano usciti dal castello e da Porta Nuova, ingordissimamente più che gli altri e crudelissimamente menavano le mani, si come quegli i quali, poi che non erano intervenuti alla battaglia, da poi che finalmente s’era acquistata la vittoria, opportunamente allargati, tolta loro la speranza della fuga, incontravano gli spaventati e i feriti.
La Vita del S. Don Ferrando Davalo Marchese di Pescara, Scritta per Mons. Paolo Giouio Vescouo di Nocera Et tradotta per M.Lodouico Domenichi nuouamente da lui reuista , & ristampata, con la tauola delle cose notabili - In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, MDLVI