
L.M.
(Parte V – L’agonia della battaglia e l’ultima resistenza del re)
Le sorti della giornata erano ormai segnate, ma il campo di battaglia, lungi dal concedere riposo, si faceva ancora teatro di scontri feroci e disperati.
I soldati svizzeri che erano scampati alla disfatta gettavano ora la colpa della rotta su Lanson, cognato del re, il quale, esitante e timoroso, aveva abbandonato la battaglia con l’intera cavalleria della retroguardia, travolgendo nel suo precipitoso ripiegamento le stesse schiere svizzere che avanzavano verso il nemico. Fu il colpo finale al fragile equilibrio dell’armata francese.
Ma in un angolo del campo, fra le schiere più salde, i Tedeschi della Banda Nera resistevano con ferocia disperata. Essi non combattevano solo per la vittoria o per la gloria, ma per il proprio onore e per il giuramento fatto al re di Francia. Il loro odio per gli imperiali era antico e radicato: li consideravano traditori della loro stessa stirpe, venduti all’Imperatore, nemico della libertà della Germania.
Per gli imperiali, la vista di quei mercenari tedeschi che levavano le armi contro i loro fratelli era fonte d’ira e di sdegno. Sprezzavano quegli uomini che, rinnegando la fedeltà al loro sangue, avevano venduto le proprie spade a chi un tempo li aveva combattuti. E così lo scontro tra le due fazioni tedesche si fece ancor più violento: non v’era misericordia, né quartiere, né speranza di resa.
Le schiere si appressavano silenziose, quasi portate da un destino ineluttabile. A guidare i Tedeschi della Banda Nera vi era Longamante d’Augusta, capitano d’animo fiero, il quale, levata la mano, sfidò a singolar tenzone Giorgio Franispergo e Marco Stizio, condottieri delle fanterie imperiali.
Ma nessuna sfida ebbe luogo. Gli imperiali risposero con il ferro, e Longamante cadde crivellato dai colpi, mentre un soldato, tagliatagli la mano ancora ornata di anelli e gemme, la levava in alto come trofeo di guerra.
A quel segnale, gli imperiali si gettarono avanti con rinnovato impeto. Il Pescara stesso, pur ferito, incitava i suoi con parole di fuoco, ricordando loro le battaglie passate, le imprese gloriose, il valore che doveva condurli al trionfo.
Nel pieno dello scontro, mentre spronava il cavallo tra le linee nemiche, il Pescara fu colpito da una punta d’alabarda alla gamba sinistra, e il suo destriero, travolto dal tumulto, cadde morto sotto di lui. Il generale, ormai in terra e senza possibilità di difesa, rischiò d’essere sopraffatto e ucciso, se non fosse stato tratto in salvo dai suoi uomini.
Intanto, il piano del Pescara si compiva. Il Franispergo e il Stizio, con grande astuzia, manovrarono per chiudere in una morsa le ultime schiere della Banda Nera. I mercenari tedeschi, non avendo scampo, combatterono fino all’ultimo uomo. Ma era una lotta senza speranza: un solo reggimento si trovò a fronteggiare tre intere legioni imperiali, e fu fatto a pezzi.
Sul campo giacevano i migliori capitani francesi e tedeschi. Tra essi, Riccardo, duca di Suffolk, conosciuto con il nome di Rosa Bianca, ultimo discendente di quella dinastia inglese che per anni aveva conteso il trono ai Tudor. Cadde, tra il fango e il sangue, senza mai aver potuto reclamare la corona che dicevano essergli destinata.
E ancora caddero Francesco di Lorena, fratello del duca Antonio, il barone Hortombergo, il nobile Loffeno, il valoroso Teodorico Combergo, fratello dell’arcivescovo di Capova. Uomini d’arme illustri, finiti nelle fosse della storia.
Nel mentre, in ogni angolo del campo, gli svizzeri fuggivano, i francesi cadevano, e le insegne della Francia si piegavano sotto il peso del piombo e della sconfitta.
Ma il re non si arrendeva.
Quando la sua armata già si sgretolava, Francesco I combatteva ancora con rabbia e disperazione. Molti capitani, per non perdere la loro ultima occasione di gloria, si gettarono attorno al loro re, tentando con il proprio valore di rovesciare l’inesorabile destino della giornata.
Il loro sacrificio non bastò.
Il momento fatale si avvicinava. Francesco I era ancora in sella, ma il suo esercito non esisteva più.
L’ultimo capitolo di questa tragedia sta per compiersi. Il re di Francia, solo, si troverà a fronteggiare la disfatta. Il prossimo racconto svelerà la sua resa, la cattura, e il trionfo dell’Impero. Seguite il prosieguo della cronaca di Paolo Giovio, ché la storia ha già inciso il suo verdetto.

Paolo Giovio
Nondimeno gli svizzeri i quali rimasero vivi diedero la colpa di questa rotta ricevuta a Lanson, cognato del re, perché egli, poco valoroso e lungo tempo stato a guardare la battaglia inchinare, mentre che durando ancor la battaglia si diede a fuggire, con la cavalleria intera della retroguardia precipitosamente attraversandola aveva rotto l’ordinanza degli svizzeri, la quale serrata insieme onoratamente entrava in battaglia.
Ma nondimeno dal destro corno de’ francesi, soli fra tutta la fanteria, i tedeschi dalla banda nera, come disperati della salute e della vittoria, animosamente e costantissimamente combatterono co’ tedeschi, e quasi con maggior odio che forza, le quali erano grandi, s’affrontarono.
Perché arrabbiati gli animi loro per lunga discordia, all’una parte né nell’altra, che pure un poco mossa di luogo si fosse ritirata, pareva alcuna speranza di perdono o di militar misericordia.
Sdegnavano anzi gli imperiali che i neri, sprezzata e schernita la maestà dell’imperatore e rifiutata l’autorità del nome tedesco, servendo il re di Francia loro antico nemico con armi mercenarie, fossero venuti ad assediare e combattere i fratelli e parenti.
D’altra parte i neri riputavano cosa molto onorata valorosamente servire quel re il quale molti anni gli aveva liberalmente pagati, mantenere la fede del sacramento e non far cosa alcuna la quale fosse indegna di soldati vecchi.
E veramente non v’era alcun di loro in quello, senza dubbio alcuno supremo atto della vita e sforzo di battaglia, il quale con disperato valore e onorata morte non avesse tolto a vendicare l’ingiuria della nemica fortuna.
Appressandosi dunque le squadre e movendo il passo con maraviglioso silenzio, andava solo innanzi alla battaglia de’ neri Longamante d’Augusta, nobilissimo capitano, il quale alzando la mano e con chiara voce sfidava a singolar battaglia Giorgio Franispergo e Marco Stizio.
Ma essendo egli con terribil grido rifiutato e in un medesimo tempo ferito da molti, tosto cadde morto, e un fantaccino privato tagliatogli la mano con le gioie e con gli anelli la mostrava in guisa di trionfo.
Allora, alzato un grido, gli imperiali animosamente spinsero innanzi.
Era in mezzo del campo, mentre che l’una e l’altra ordinanza s’affrontava, il Pescara sopra un gran cavallo, ma però armato da fante a piedi; il quale spesso pregava il Franispergo che affrettasse il passo, e ricordandogli le guerre passate dove quello uomo s’aveva fatto onore grandemente, l’infiammava all’acquisto d’una ricchissima e nobilissima vittoria.
Affrontandosi dunque l’una e l’altra battaglia, mentre ch’egli spronava il cavallo contra i nemici, cacciatogli una punta per l’elmetto aperto, fu ferito nella faccia, e mortogli poi sotto il cavallo, gli fu passata la gamba sinistra da una alabarda. In quel terribile fracasso d’armi senza alcun dubbio egli sarebbe stato morto, come i suoi e parimente dei nemici, se non che, facendo egli a fatica difesa, prima un cavaliere suo famigliare e poi i capitani e gli alfieri più vicini, trattolo fuori con grande sforzo, lo salvarono.
In questo mezzo il Franispergo e il Stizio, con maravigliosa astuzia, allargata dall’una e l’altra parte la battaglia per serrare in mezzo i nemici, subito sparse e legate le corna, cinsero la fanteria tolta in mezzo, e bench’ella ostinatissimamente si difendesse, tutta però la tagliarono a pezzi, di maniera che, essendo una sola legione posta contro tre, e per questo con infelice virtù difendendosi, non si salvò quasi nessun tedesco dalla banda nera.
Morirono quivi, oltre Longamante, dinanzi ai primi ordini Riccardo, duca di Sufforch, il quale si chiamò per sopranome Rosa Bianca, a cui molti e specialmente i francesi dicevano che toccava il regno d’Inghilterra, e da loro, per la dignità del nome reale e per la cognizione ch’egli aveva delle cose di guerra, era stato fatto capitano dei tedeschi dalla banda nera.
E anco Francesco, fratello d’Antonio, duca di Lorena, giovane di grande aspettazione, il quale, riguardevole d’armi e di pennacchi, aveva domandato luogo nella prima ordinanza innanzi agli altri. Morirono inoltre due baroni tedeschi, un Hortombergo e il Loffeno, uomini illustri in guerra, e Teodorico Combergo, fratello di frate Nicolò, arcivescovo di Capova, il quale, oltre la dignità di cavaliere, era illustre ancora d’onore d’ambascerie per industria del suo eccellente ingegno.
In questo modo, mentre che in diverse parti gli svizzeri erano posti in fuga e i tedeschi tagliati a pezzi, quasi in quel medesimo tempo la battaglia del re fu rotta dagli archibugieri e dalla cavalleria, adoprandovisi anco le picche.
Allora ogni capitano onorato e cavaliere illustre corse a difendere e a liberare il re, e molti ancora, per desiderio di fare qualche notabile prodezza sugli occhi del re, lasciarono i luoghi e le squadre loro.
La Vita del S. Don Ferrando Davalo Marchese di Pescara, Scritta per Mons. Paolo Giouio Vescouo di Nocera Et tradotta per M.Lodouico Domenichi nuouamente da lui reuista , & ristampata, con la tauola delle cose notabili - In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, MDLVI